24 gennaio 2012

Sui tre no di Boris Pahor

"Il fascismo ci aveva portato via le scuole, la lingua, persino i nomi. Tutto ciò che poteva esprimere, anche vagamente, la nostra identità nazionale fu cancellato."
Boris Pahor, "Tre volte no",
Ed. Rizzoli, Milano, 2009.
Era solo un bambino quando a Trieste fu proibito parlare sloveno. L'italianizzazione forzata, imposta dal fascismo alla città poliglotta in cui era nato e cresciuto, lo segnò per sempre. Studente più volte bocciato, seminarista per ripiego, soldato dell'esercito italiano, antifascista militante, deportato politico, insegnante e infine scrittore di vaglia. Una vita scandita dai tre no opposti con uguale fermezza al fascismo, al nazismo e al comunismo.
Dall'incendio della Casa di cultura slovena ai campi di concentramento, l'autore di "Necropoli" ricorda a chi vuole dimenticare che il fascismo non fu un regime tollerante, ma incarnò un male violento e oppressivo. E ripete che è giusto commemorare le vittime delle foibe, ma è altrettanto necessario ammettere prima i soprusi di una dittatura che voleva abolire le minoranze. La solitudine degli italiani di confine nasce proprio dai silenzi di una memoria troppo indulgente con se stessa, ancora oggi intrisa di sensi di colpa.

Nessun commento:

Posta un commento